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gerardinamaglione

L’insostenibile pesantezza del quotidiano

Aggiornamento: 28 set




E’ esperienza comune di tutti vivere le giornate dovendo frequentemente fronteggiare uno stato di tensione mentale e corporea che spesso non ci sappiamo spiegare bene: un ricorrente senso di disagio, un’impressione di essere sopraffatti dalle responsabilità, un’inquietudine che stringe lo stomaco, un flusso insistente di pensieri che ci sussurrano all’orecchio la nostra inadeguatezza a far fronte a tutti gli impegni.

Una possibile origine di tutto questo risiede nell’immagine ideale di noi che inconsapevolmente si è creata nel tempo dentro di noi. E’ come un piccolo altare con un’effigie di noi come vorremmo che fossimo, o meglio come nel tempo ci è stato più o meno velatamente inculcato che avremmo dovuto essere per poter ottenere l’accettazione e l’approvazione dell’ambiente.

Questo “super-noi”, che vive solo nella nostra mente, ha determinate caratteristiche spesso collegate ai ruoli (“al lavoro sono uno/a che non ha bisogno di nessuno”), reagisce in un certo modo (“non ho paura di niente”), prova ben precisi sentimenti (“sono un figlio/genitore devoto/a e non sono mai in conflitto con i miei genitori/figli”). E questa immagine, per potersi autopreservare, non può tollerare di essere contraddetta dall’esperienza della vita reale.

Capita invece che la realtà, a volte in modo brutale a volte in modo più sottile, possa incrinare quest’idea di noi, e solitamente il primo avamposto abile a rilevare queste incongruenze è il corpo, con le sue reazioni apparentemente indecifrabili: tensioni alla schiena o al collo, battito cardiaco accelerato, chiusura o tensione alla bocca dello stomaco, e così via. Di solito ci diamo delle spiegazioni accettabili, come “deve essere la stanchezza”, “non è nulla”, “non significa niente”. Così facendo, distorciamo la realtà di quello che ci accade, delle nostre stesse reazioni, per poterle adattare all’immagine ideale di noi. In buona sostanza, non lasciamo parlare l’esperienza.

Su questo lo psicologo Carl Rogers dice:


“Bisogna lasciare che sia la nostra esperienza stessa a dirci il suo significato...Se potessimo lasciare che fosse l’esperienza stessa a dirci quello che significa, se potessimo riconoscere l’odio come odio, l’amore come amore, la paura come paura e integrare quei significati fondamentali nella nostra stessa struttura del sé, non avvertiremmo quella tensione interna che è così comune a tutti noi. “


Certo, non è facile accettare che ci sono parti di noi vulnerabili che non combaciano con l’immagine invincibile che custodiamo gelosamente e spesso inconsapevolmente. Il fatto è che queste parti spesso provengono dalle regioni più vere di noi, quelle che, se riconosciute e accolte, ci consentono di diventare un po’ più liberi, insomma più noi stessi.

In più, c’è da dire che questo sforzo, consapevole o no, di confermare continuamente il nostro “personaggio” richiede un così grande dispendio di energie che non stupisce che ci ritroviamo alla fine della giornata esausti e carichi di tensioni ben oltre quello che sarebbe ragionevole e proporzionato agli impegni quotidiani.

Riconoscere invece le nostre emozioni e stati d’animo per quello che sono, senza necessità di distorcerli, vuol dire creare le condizioni per un graduale allentamento delle tensioni e fare posto ad un senso di maggiore unità e di ritrovata energia. Vuol dire darsi la possibilità di sperimentare qualcosa di diverso e liberante. Vuol dire a poco a poco accorgersi con sollievo che è possibile lasciar andare lo sforzo di nascondere sotto il tappeto gli atteggiamenti e le emozioni per noi inaccettabili.


Trovo illuminanti a questo proposito le parole di una paziente di Rogers riportate in “Terapia centrata sul cliente”:


“Sembra che tutta l’energia che serviva per tenere insieme la struttura arbitraria non fosse assolutamente necessaria, fosse anzi uno spreco… A volte si mettono i pezzi nel posto sbagliato e più i pezzi sono stati sistemati in modo sbagliato, più sforzo si fa per tenerli insieme; alla fine si è così stanchi che si preferisce perfino quella terribile confusione piuttosto che continuare a tenerli insieme. Poi si scopre che i pezzi in disordine, lasciati a se stessi, vengono a occupare naturalmente il loro posto e che una nuova forma viva emerge senza alcuno sforzo. Si ha soltanto il compito di scoprirla e scoprendola si troverà se stessi e il proprio posto. E’ come se tutta la vita fosse perfettamente non direttiva, non è vero?”


Voi cosa ne pensate? Vi capita di sentirvi stanchi o tesi più di quanto sarebbe ragionevole aspettarsi al termine di una normale giornata quotidiana? Se vi fa piacere condividere la vostra esperienza potete rispondere nei commenti o, se preferite, scrivetemi in privato. Vi ascolterò con gioia e con interesse.


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